La Rivista della Corte dei Conti parla della “paura della firma”

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La Rivista della Corte dei Conti parla della “paura della firma”
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La Rivista della Corte dei Conti parla della “paura della firma”

Nel fascicolo n. 1/2025 della “Rivista della Corte dei Conti” è stato pubblicato un saggio giuridico sul tema della cosiddetta “paura della firma” per quanto riguarda i dipendenti della PA. Un tema strettamente collegato alle attività dell’Osservatorio oltre che, in generale, al mondo della Mediazione poiché è necessario avere, in seno alla Pubblica Amministrazione, dei funzionari che siano non solo altamente qualificati professionalmente e capaci di assumere decisioni rispettose dei principi di buona amministrazione ma anche formati alla cultura della conciliazione ed alla prevenzione dei conflitti per promuovere le soluzioni transattive e gli accordi.

Ecco perché vogliamo qui di seguito analizzare i contenuti di questo saggio, firmato da Vito Tenore, Presidente di Sezione della Corte dei conti, docente presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione e professore ordinario abilitato di diritto amministrativo. Il titolo del contributo, di per sé già eloquente, è “La paura della firma e la fatica dell’amministrare tra mito e realtà: categorie reali o mera giustificazione per l’impunità normativa degli amministratori pubblici? Dalla ‘Corte dei conti’ alla ‘Corte degli sconti’”.

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Il fulcro del saggio è rappresentato da una critica serrata verso le espressioni oggi largamente impiegate nel discorso politico-mediatico per descrivere l’atteggiamento della pubblica amministrazione: “paura della firma”, “burocrazia difensiva” e “fatica dell’amministrare”. Queste locuzioni, secondo l’autore, sono diventate veri e propri slogan, spesso evocati in talk show, articoli di giornale, interventi parlamentari e persino in sentenze della Corte costituzionale, come quella n. 132/2024. Il loro uso ricorrente avrebbe assunto i contorni di un luogo comune, carico di suggestione, ma carente di ogni ancoraggio empirico e probatorio.

Tenore contesta in particolare la pretesa scientificità e oggettività di tali categorie, definendole emotive, psicologiche, evanescenti. Il loro richiamo costante servirebbe, a suo avviso, non a migliorare l’efficienza della macchina pubblica, ma a giustificare iniziative legislative di depotenziamento delle responsabilità erariali, costruite su presupposti indimostrati. Non a caso, l’autore definisce l’articolo 21 del d.l. 76/2020, che ha introdotto lo “scudo erariale”, e il disegno di legge Foti (C1621/S1457), come strumenti normativi volti a trasformare la Corte dei conti in una “Corte degli sconti”.

Nel dettaglio, il saggio smonta l’assunto secondo cui la cosiddetta paura della firma sarebbe causata da un clima persecutorio da parte della magistratura penale o contabile. L’autore sottolinea che non esistono dati oggettivi, sentenze documentate o ricerche scientifiche che comprovino tale nesso causale. Anzi, evidenzia come le condanne pronunciate dalla Corte dei conti siano circoscritte a ipotesi di dolo manifesto, macroscopiche violazioni normative, clamorosa sciatteria o grave negligenza. Nessuna traccia, insomma, di un uso distorto o eccessivamente formalistico del potere giudiziario contabile.

Tenore si sofferma anche sull’analisi della giurisprudenza costituzionale, in particolare sulle sentenze n. 8/2022 e n. 132/2024. In esse la Consulta, accogliendo il concetto di “burocrazia difensiva” come fenomeno diffuso, ha legittimato interventi normativi che, secondo l’autore, riducono pericolosamente l’efficacia deterrente dell’azione erariale. Tali pronunce, lungi dall’essere fondate su una seria base probatoria, sarebbero espressione di un sentire comune non dimostrato, una “dogmatica del timore” elevata a criterio normativo e giurisprudenziale.

 

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Per quanto riguarda alcuni estratti del saggio degni di nota, segnaliamo quello in cui si cita lo studio, abbastanza recente e dunque attendibile, con il quale sono stati sentiti ben 1.700 dirigenti, funzionari, amministratori over 45 anni e di tutti i Comparti, uomini, donne e pensionati. «È emerso – si legge – che la burocrazia difensiva nasce in primo luogo per la mancanza di una rotta certa da parte dei nocchieri: legislatore e vertici gestionali non indicano ai dirigenti e funzionari la logica della navigazione. A tale prioritario elemento di destabilizzazione, segue l’eccessiva produzione normativa, i mutamenti e la sovrapposizione di norme. In terzo luogo, l’indagine evidenzia la frammentazione delle responsabilità nelle strutture amministrative, che rende poco chiaro l’agire pubblico. In quarta posizione si colloca la difficoltà a capire i processi di riforma e il senso strategico del proprio lavoro. Segue quindi l’inadeguata formazione e poi la demotivazione (scarso riconoscimento sociale del proprio lavoro). In posizione finale – spiega sempre il saggio – sul piano della gerarchia delle preoccupazioni destabilizzanti e intimorenti (ma non di “paura” paralizzante), si colloca la Corte dei conti con i suoi giudizi e l’inasprimento dei troppi controlli».

Sempre per fare riferimento ad alcuni estratti rilevanti del documento in questione, si segnala la parte in cui il saggio si concentra sulle «direttrici “a monte”» per una politica del miglioramento dell’efficienza dell’azione pubblica, del rilancio dell’economia e del rafforzamento del “coraggio del decidere” da parte di amministratori e politici.

Sotto questi aspetti il saggio individua, appunto, una serie di “direttrici”, ovvero: «a) reclutamento più meritocratico e indipendente dei migliori dipendenti (art. 97 Cost.) e dei migliori amministratori soprattutto locali (da selezionare e formare in scuole di partito e con tanta previa umile e formativa gavetta) che, in quanto tali, saranno più competenti, imparziali, produttivi e, soprattutto, meno timorosi (è l’incompetenza a rendere pavidi e lenti); b) costante formazione e aggiornamento degli stessi per saper affrontare situazioni nuove e referenti normativi mutati (maggiori stanziamenti, e non già tagli, per la formazione concreta e non teorica); c) stabilità normativa (evitando la frenetica produzione di testi estemporanei e poco sistematici o derogatori) e codificazione rapida, per materia, delle troppe norme esistenti, per evitare rallentanti incertezze interpretative da parte della dirigenza e degli amministratori pubblici; d) redazione in modo chiaro delle norme da parte di ingegneri (e non di geometri) del diritto, per rendere chiari e indirizzanti i precetti normativi; e) meritocratica attribuzione delle qualifiche dirigenziali, soprattutto apicali, a soggetti dotati di capacità gestionali, preparati e, come tali, produttivi e rapidi; f) incentivi economici ai più meritevoli e capaci, senza erogazione “a pioggia” di premi e indennità di risultato, in modo da stimolare efficienza e tempestività gestionale».

Il saggio si confronta quindi con il progetto di legge Foti, approdato al Senato dopo una rapida approvazione alla Camera, che prevede una serie di modifiche sostanziali al regime della responsabilità amministrativa: tetti massimi alle sanzioni, esclusione della responsabilità per colpa grave in caso di accordi transattivi, ampliamento dell’esenzione a tutti gli atti connessi sottoposti a controllo, introduzione del silenzio-assenso nei controlli della Corte dei conti. Secondo Tenore, si tratta di interventi normativi che snaturano le funzioni della Corte, confondendo le sue prerogative giurisdizionali con funzioni amministrative e introducendo criteri di irresponsabilità difficilmente compatibili con la tutela dell’erario.

In un passaggio particolarmente critico, l’autore osserva come tali riforme, lungi dal nascere da esigenze avvertite dalla società civile o dagli operatori giuridici, rispondano piuttosto a interessi politici di breve periodo, con l’obiettivo di rassicurare e proteggere amministratori locali, spesso i principali destinatari di procedimenti contabili. Il Parlamento, afferma Tenore, non ha ricevuto alcuna sollecitazione in tal senso da cittadini, professionisti o associazioni di categoria, ma ha comunque proceduto a normare sulla base di percezioni indimostrate.

Il saggio si chiude con una riflessione amara ma propositiva. Se davvero si vuole migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, non è attraverso la riduzione delle responsabilità che si otterranno risultati. Serve invece agire “a monte”: selezione meritocratica, formazione costante, norme chiare e stabili, strumenti di valorizzazione delle competenze. Solo così si può restituire fiducia e coraggio a chi amministra. Lo “scudo” non può mai sostituire la competenza; la “corazza normativa” non può mai prendere il posto della trasparenza, della preparazione e del senso del dovere.

Tenore lancia infine un avvertimento in merito al PNRR: in una fase storica in cui sarebbe cruciale rafforzare i controlli sulla spesa pubblica, l’Italia sta invece indebolendo gli strumenti di verifica e responsabilità. Un paradosso normativo che rischia di aggravare le distorsioni nella gestione delle risorse e che potrebbe generare ulteriori oneri per i cittadini, a fronte di minori tutele e servizi. La diagnosi finale è netta: non è la paura della firma a bloccare la macchina pubblica, ma l’incompetenza, l’opacità e la mancanza di visione. E questi mali non si curano con l’impunità, ma con il rigore, la professionalità e la buona amministrazione.

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