Nel panorama delle relazioni lavorative e delle procedure conciliative, si segnala un caso recente di forte impatto giuridico: secondo l’articolo pubblicato da Altalex il 15 settembre 2025, un datore di lavoro si sarebbe reso responsabile di una violazione dell’obbligo di buona fede negando la sottoscrizione di un verbale di conciliazione che era previsto da un contratto collettivo di lavoro (CCL). La vicenda è significativa, perché pone al centro il rapporto tra le obbligazioni derivanti dal CCL e il comportamento della parte datoriale nella fase conciliativa.
La notizia descrive che in quell’ipotesi il contratto collettivo applicabile prevedeva, per una determinata fattispecie di contenzioso interno (spesso controversie individuali o di natura retributiva), la redazione di un verbale di conciliazione come passaggio obbligatorio. Ciò significa che non si trattava di una mera ipotesi facoltativa, bensì di un impegno contrattuale cogente per le parti coinvolte. Tuttavia, il datore di lavoro, pur consapevole della previsione contrattuale, avrebbe rifiutato di sottoscrivere il verbale formulato, opponendosi alla formalizzazione dell’accordo conciliativo.
Secondo l’analisi giuridica riportata da Altalex, tale rifiuto configura una violazione dell’obbligo di buona fede nel rapporto contrattuale. Il fondamento della decisione risiede nell’idea che la buona fede non si esaurisce nei momenti iniziali delle trattative, ma permea l’intera fase esecutiva e negoziale. In un contesto simile, il datore, opponendo un rifiuto a una formalizzazione che è prescritta dal CCL, contravverrebbe alle legittime aspettative del lavoratore e del sindacato, generando un comportamento che il diritto non può tollerare.
L’articolo richiamato non fornisce i nomi delle parti, né il territorio o il contratto collettivo di riferimento. Non specifica nemmeno se vi sia già stata una pronuncia giudiziaria che abbia accertato la responsabilità del datore. Non emerge se il lavoratore abbia già promosso un ricorso, né quali siano le conseguenze immediate in quell’ipotesi, ad esempio la richiesta di condanna al risarcimento o l’obbligo di procedere alla firma in una sede protetta.
Non si menziona alcuna posizione ufficiale del datore o di un sindacato, né dichiarazioni difensive che possano giustificare il rifiuto. L’articolo si limita a focalizzarsi sull’aspetto giuridico e sul principio: quando un CCL prescrive la redazione di verbale di conciliazione, il datore non può legittimamente sottrarsi alla firma senza incorrere in responsabilità per violazione della buona fede.
Nemmeno viene indicato se il verbale conteneva rinunce a diritti del lavoratore o clausole transattive, elementi che potrebbero condizionare la validità dell’accordo stesso o incidere sulla valutazione della buona fede. L’articolo si astiene dal commentare, nella fattispecie, eventuali profili di nullità o impugnabilità, limitandosi piuttosto a sottolineare che il rifiuto del datore non può rimanere privo di conseguenze, essendo in contrasto con l’obbligo contrattuale di collaborazione tra le parti.
In conclusione, la notizia sottolinea un principio che potrebbe avere riverberi nel mondo del diritto del lavoro e delle procedure conciliative: un datore che rifiuta di sottoscrivere un verbale previsto dal CCL può essere considerato inadempiente rispetto all’obbligo di buona fede. Il caso rimane tuttavia caratterizzato da limitazioni informative — nessuna menzione di decisioni giudiziarie, parti coinvolte o contesto contrattuale specifico — per cui l’articolo svolge una funzione più indicativa che documentale.